Con una lettera indirizzata al neo premier Mario Draghi, al ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, al presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio, all’assessora all’Istruzione Elena Chiorino e al direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale Fabrizio Manca, il comitato Priorità alla Scuola del Piemonte, presieduto da Sara Tron, insieme all'educatrice Valentina Sacchetto, alle psicologhe dell'ordine del Piemonte Barbara Mamone e Cinzia Rolando, ai docenti dell'Università degli Studi di Torino Anna Granata e Cristiano Giorda e all'epidemiologa Sara Gandini, ha ricordato l'importanza della didattica in presenza.
Ecco, di seguito, il testo della missiva.
 
Garantire l’attività didattica in presenza è una delle richieste cardini del comitato Priorità alla Scuola del Piemonte, ma anche di molti altri professionisti (educatori, psicologi, professori universitari, medici) che interagiscono con i bambini e i ragazzi. Per questo motivo abbiamo deciso di scriverVi questa lettera alla cui stesura abbiamo collaborato tutti insieme.
Siamo consapevoli della grave situazione epidemiologica che sta   attraversando il nostro paese insieme a tutta l’Europa e al mondo   intero. Tuttavia, nonostante la famosa seconda ondata fosse attesa da   mesi, non si è colpevolmente investito in medici, insegnanti,   tracciamenti, trasporti.
La didattica a distanza è stata una   soluzione emergenziale necessaria nella prima fase della pandemia, ma   non può sostituire in alcun modo la didattica in presenza. I dati fanno   emergere come per un alto numero di studenti vi siano stati buchi di   apprendimento del 30/50% e un tasso di abbandono altissimo. La scuola   poi, non è soltanto apprendimento, ma anche socialità, incontro, ovvero   dimensioni fondamentali per tutti i nostri ragazzi.
 
I nostri territori sono segnati da profonde diseguaglianze, che esistevano prima della crisi pandemica, e che quest’ultima contribuisce ad accentuare. A Torino ci sono scuole e classi nelle quali, durante il primo lockdown nell’anno scolastico 2019/2020, il 60,5% degli studenti era sprovvisto di un PC e il 31,5% della minoranza che l’aveva doveva condividerlo con altri membri della famiglia, il 94% non aveva un tablet e il 35% non poteva contare su una connessione WiFi. Torino, già ben prima dell’arrivo del COVID, presentava una profonda spaccatura socio-economica e culturale, una grave ferita del tessuto sociale che la chiusura prolungata delle scuole ha aggravato sensibilmente. I ragazzi che nascono e crescono in centro infatti hanno il sestuplo delle probabilità di conseguire un diploma rispetto a coloro che nascono in quartieri a poco più di un chilometro di distanza, dove il tasso di abbandono scolastico arriva anche a 10 volte la media nazionale.
Questi sono i numeri di un’emergenza sociale che Torino vive da   lungo tempo; essi ci dicono anche che il tema del divario digitale non   riguarda solo l’infrastruttura materiale, pur fondamentale e ancora   carente (device, connessioni a banda larga), ma anche l’urgente   questione culturale delle competenze necessarie per utilizzare il   digitale in modo consapevole, critico ed efficace.
Inoltre, la DaD   aumenta il divario sociale, penalizza i più fragili e poveri, non può   formare le menti al pensiero critico, ma anzi ne aumenta la dipendenza   dalle distrazioni digitali, con danni che peseranno sul futuro dei   nostri giovani.
La scuola deve venire prima di tutto e non dopo tutto perché rappresenta il nostro migliore investimento.
 
I dati a nostra disposizione, estrapolati dalla letteratura   scientifica nazionale e internazionale, ci fanno dire che il disagio dei   giovani è fortemente correlato allo stato di isolamento e di  solitudine  in cui, a partire dal lockdown, si sono trovati. Tale  situazione si è  protratta sino ad oggi, collezionando il primato  europeo per scuole  chiuse. Sappiamo, in quanto professionisti della  psiche, che lo spazio  della socializzazione (non mediata dal mezzo  tecnico) è fondamentale  nelle fasi dello sviluppo del soggetto,  unitamente al confronto diretto  con persone che non fanno parte del  proprio nucleo familiare ristretto  che sia virtuoso o deficitario.
Da  uno studio recente, fatto su un  campione di 600 soggetti tra i 12 e i  19 anni, risulta che uno su tre ha  sviluppato un disturbo di tipo  ansioso-depressivo che si manifesta  prevalentemente attraverso gesti  autolesionistici, tentativi suicidari,  disturbi del comportamento  alimentare, disturbi da attacco di panico  fino ad arrivare a stati  dissociativi importanti accompagnati da  depersonalizzazione e  derealizzazione. Interessante notare che questi  dati sono in  correlazione diretta con il fatto di non andare a scuola.
 
A questo studio si aggiungono quello del Gaslini di Genova,   dell’Istituto Mario Negri e del Regina Margherita di Torino, in cui è   stato evidenziato l’aumento dei tentativi di suicidio e dei suicidi   compiuti nell’ultimo anno. Studi recenti, che si riferiscono a ricerche   in continua espansione, esplorano gli effetti dell’isolamento forzato   (lockdown), della quarantena e del distanziamento sociale. Una review   recente (J Am Acad Child Adolesc Psychiatry. 2020 Nov;59(11):1218–1239)   dice che i bambini e gli adolescenti hanno probabilmente maggiori   probabilità di sperimentare alti tassi di depressione e molto   probabilmente ansia durante e dopo la fine dell'isolamento forzato.   Questo può aumentare man mano che l'isolamento forzato continua. Dalla   letteratura emerge inoltre un aumento della violenza domestica e un   maggior rischio di suicidi/tentativi di suicidio (JAMA August 18, 2020   Volume 324, Number 7; Gunnel D., 202).
 
Nella nostra società, la scuola rappresenta il luogo per elezione   del confronto e della crescita degli individui, della costruzione di sé   come soggetti capaci di affrontare le sfide della vita. Il gruppo dei   pari e la relazione con gli insegnanti non possono che essere luogo   virtuoso di contenimento e rielaborazione del particolare momento   storico che stiamo vivendo.
La presenza dello psicologo nella scuola è   sicuramente importante, ma occorre essere molto cauti e attenti a non   trasmettere un segnale di patologizzazione del disagio dei ragazzi   offrendo un contenitore che non tiene in considerazione la sanità di   tale disagio, che non va placato, sedato con dei palliativi, ma   ascoltato nel suo significato profondo.
 
La chiusura della scuola, contemporanea alla riapertura delle   attività commerciali, trasmette ai ragazzi un segnale di disattenzione   nei loro confronti se non come consumatori. Segna un paletto di cui   crediamo si sottovalutino le conseguenze, nel rimandare loro il totale   disinvestimento sulla dimensione di crescita, di messa a parte del mondo   sociale, se non esclusivamente in termini di soggetti abilitati a   spendere denaro.
Il mantenimento delle scuole chiuse toglie ai   ragazzi un luogo di confronto, pensiero e supporto dove potersi   immaginare attori agenti del loro futuro, e dove essere sostenuti nel   poterlo pensare e diventare. Questo tipo di atteggiamento adulto, che   non considera prioritaria la condizione dei ragazzi, non può che   ricadere sugli stessi in modo depressivo, svuotando della possibilità di   intravedere l'elaborazione di senso di quanto stanno attraversando.
 
Sebbene l'Italia abbia tenuto le scuole chiuse per più tempo, ha comunque avuto un numero di vittime maggiore di altri paesi, nei quali non è stato compromesso in maniera così pesante il diritto all'istruzione. Il primo studio epidemiologico completo sui contagi nelle scuole italiane durante la seconda ondata di Covid-19, da settembre a dicembre, è stato realizzato attraverso l'analisi dei dati forniti dal MIUR e provenienti da tutti gli Istituti scolastici italiani - il 97% delle scuole italiane, più di 7 milioni di studenti e 700 mila insegnanti - nonché dalle analisi di altre tre banche dati disponibili. I dati mostrano che a fronte di un elevato numero di test effettuati ogni settimana, i focolai si riscontrano in meno del 7% delle 13000 scuole analizzate nelle due settimane di fine novembre/inizio dicembre in un campione molto alto di quasi un milione di studenti (nel complesso l’ISS ha stimato un 2% di focolai). Meno dell’1% di tutti i tamponi eseguiti a seguito di un positivo a scuola è risultato positivo.
Questi dati indicano che le scuole sono sicure e che gli studenti   non sono un bacino di virus. L'incidenza dei positivi tra gli studenti è   stata trovata inferiore a quella della popolazione generale (incidenza   complessiva: 108/10.000), indipendentemente dal fatto che si   analizzassero le scuole elementari e medie (incidenza: 66/10.000) o le   scuole superiori (incidenza: 98/10.000). L'incidenza di nuovi positivi   tra gli studenti delle scuole elementari e medie è stata mediamente   inferiore del 38,9% rispetto alla popolazione generale in tutte le   regioni italiane tranne il Lazio. Nel caso delle scuole superiori,   l'incidenza di nuovi positivi tra gli studenti è stata inferiore del 9% a   quella della popolazione generale, tranne in tre regioni (Lazio,  Marche  ed Emilia-Romagna). Tra gli insegnanti e il personale non  docente  l'incidenza è stata due volte superiore a quella osservata  nella  popolazione generale (circa 220/10.000) poiché il numero di  tamponi  effettuati è molto elevato (“più cerchi, più trovi” è la prima  regola  delle malattie infettive). Il numero di test per istituto a  settimana è  variato in media da 7 nella scuola materna a 18 nelle  scuole medie, con  diverse scuole che fanno ben oltre i 100 test in una  settimana durante  il tracciamento.
 
Inoltre lo studio ha indagato se l’apertura delle scuole avesse favorito l’aumento dell’indice di trasmissione, il famoso indice Rt che ci dice quanto si espande un’epidemia. Gli autori hanno mostrato che gli aumenti dell’indice Rt non correlano con la data dell’apertura delle scuole, anzi: in alcune regioni dove le scuole hanno aperto prima, l’Rt aumenta più tardi che in regioni dove le scuole hanno aperto dopo, e viceversa. Infine, nei mesi di settembre-ottobre (quindi attorno al periodo dell’apertura delle scuole) si è visto che l’incidenza dei positivi nelle fasce di età degli scolari e degli studenti aumenta solo dopo l’aumento osservato nelle fasce di età 20-30 anni e soprattutto 40-49 anni. I dati internazionali vanno nella stessa direzione: l'OMS afferma che sono stati segnalati pochi focolai nelle scuole dall'inizio del 2020 e la maggior parte delle infezioni riportate negli studenti è stata acquisita a casa, e che negli eventi di cluster scolastici generalmente il virus è stato introdotto da personale adulto.
Il Centro europeo per il controllo delle malattie (ECDC) ha pubblicato il 23 dicembre un report che fa il punto sugli effetti della circolazione del virus nelle scuole europee e include 12 paesi europei su 17. L’ECDC chiarisce che insegnanti e operatori delle scuole non sono risultati essere a maggior rischio di infezione rispetto ad altri lavoratori e la scuola non è stato il motore di contagio nella seconda ondata. Chiudere le scuole provoca più svantaggi che vantaggi perché, come si legge nello studio ECDC, l’impatto negativo sulla salute fisica, mentale e sull’istruzione generato dalla chiusura proattiva delle scuole, nonché l’impatto economico sulla società più in generale, probabilmente supererebbe i benefici.
Gli alunni di età compresa tra 1 e 18 anni hanno tassi di ospedalizzazione, ospedalizzazione grave e morte inferiori rispetto a tutti gli altri gruppi di età. Inoltre gli autori spiegano che i bambini sembrano essere meno suscettibili alle infezioni e, se infettati, meno spesso portano alla trasmissione rispetto ai ragazzi più grandi e agli adulti. La trasmissione di SARS-CoV-2 può avvenire all’interno delle strutture scolastiche, ma l’incidenza del COVID-19 negli ambienti scolastici sembra essere influenzata dai livelli di trasmissione nella comunità. Laddove infatti si è verificata un’indagine epidemiologica, la trasmissione nelle scuole ha rappresentato una minoranza di tutti i casi di COVID-19 in ciascun paese. Studi condotti in Germania e Italia suggeriscono che se un bambino è contagiato da un adulto, è più probabile che ciò sia avvenuto a casa che a scuola. “I bambini non sono i più colpiti da questa pandemia, ma rischiano di essere le sue più grandi vittime”. Così apre il report delle nazioni unite dedicato all’impatto del Covid-19 sui bambini.
Secondo due report dell’Ofsted, l’ufficio per gli standard scolastici e dei servizi all’infanzia nel Regno Unito, le chiusure di marzo hanno provocato una regressione dell’apprendimento e delle competenze di bambini e ragazzi di tutte le età. I report rilevano che le conseguenze non sono distribuite equamente tra gli studenti: alcuni sono stati colpiti più duramente di altri. I ragazzi con bisogni educativi speciali sono stati particolarmente danneggiati dall’interruzione dei servizi educativi. La chiusura delle scuole, inoltre, causa un ritardo nel conseguimento degli obiettivi scolastici e più in generale dello sviluppo socio-emotivo nell’età evolutiva. Un mese di vita pesa in modo molto differente nell’età dello sviluppo rispetto all’età adulta.
La chiusura delle scuole determina anche l’interruzione dell’attività motoria, dell’interazione sociale e ha inevitabili ripercussioni sul benessere psicologico di bambini e adolescenti, sul venire meno di una rete di protezione da situazioni di abuso intrafamiliare, sul rischio che bambini e adolescenti manifestino problematiche psicopatologiche come conseguenza delle misure che hanno portato alla chiusura delle scuole. Sono stati lanciati allarmi a più voci sul rischio obesità e dipendenza da device. Sulla base dell’esperienza della didattica online nei Paesi Bassi, un recente studio ha rilevato che i progressi degli studenti sono stati inferiori di circa un quinto rispetto a quello che avrebbero imparato nel corso di un anno scolastico in presenza dopo una chiusura delle scuole di 8 settimane e nonostante l’Olanda sia un paese tecnologicamente avanzato e il sistema formativo avesse potuto disporre di ottime strumentazioni e collegamenti per la didattica in remoto.
Gli autori dello studio mostrano che i risultati sono disastrosi:   se in media l’apprendimento si è ridotto di circa il 20 per cento,   l’impatto è stato ancora più grave per alcune categorie di studenti. I   danni sono particolarmente concentrati tra gli alunni provenienti da   famiglie con genitori senza istruzione universitaria: per loro, la   riduzione dell’apprendimento è stata peggiore di circa il 50 per cento   rispetto agli altri.
Le scelte politiche di questo Paese su un tema   che riguarda il futuro dei giovani, e di tutta la società, non possono   essere condizionate dalla paura e dall'inerzia. I lavoratori della   scuola devono rivendicare, assieme alla sicurezza, l'essenzialità e   insostituibilità del proprio lavoro in presenza in tutti i gradi di   scuola.
 
Non si può attendere la fine dell'emergenza per garantire   l’attività didattica in presenza, il danno sociale che si profila è   troppo elevato. A livello centrale occorre definire criteri e parametri   specifici che tengano conto del rischio epidemiologico, ma anche del   tema della salute psicofisica dei nostri ragazzi.
Non vanno   salvaguardati solo i patrimoni economici, ma anche i patrimoni culturali   e sociali della nostra comunità che risiedono nei nostri giovani. 
Si è già perso troppo tempo e sono già state sprecate troppe   occasioni. Auspichiamo che si possa porre fine a questa situazione, che è   diventata un'emergenza nell'emergenza, immaginando anche soluzioni che   possano consentire la restituzione dei mesi persi, ridefinendo il   calendario scolastico. Inoltre, poiché siamo giunti alla scadenza delle   iscrizioni scolastiche, auspichiamo che vengano fatte scelte decisive   per eliminare le cosiddette “classi pollaio” facendo investimenti   cospicui e a lungo termine sia in termini di edilizia scolastica sia di   personale docente e ATA.
 
Vi ringraziamo per l’attenzione auspicando che mettiate davvero al primo posto la garanzia dell’attività didattica in presenza per tutti gli ordini di scuole.





