Una montagna bella e ardita eppure ignorata in terra d'Ossola. Lo scrittore e giornalista Paolo Crosa Lenz ci racconta la storia e la cronaca dell'ultima ascensione al Pizzo Lesìno.
Il "gran diedro" del Pizzo Lesìno (1990 m), la vetta più elevata della catena dei Corni di Nibbio, è chiaramente visibile dalla piana ossolana: una parete grigia alta 500 m e di gneiss fragile. La punta triangolare del Lesìno, ardita e bella, è onnipresente nella vita e nel paesaggio per le genti della bassa Ossola; in particolare da Ornavasso (dove è chiamato semplicemente il Torrione) si staglia nitida nel cielo della Valgrande. L'alpinismo su queste montagne non ha una grande storia; le pareti sommitali sono brevi, gli itinerari per arrivare agli attacchi sono lunghissimi e disagevoli.
Montagne strane: tanto belle e ardite, eppure ignorate. Sguardi dolomitici, ma wilderness anche per l'alpinismo. Il “gran diedro” fu salito nel 1948 da tre giovani alpinisti di Ornavasso (Nicola Rossi, Giuseppe Oliva e Sergio Olzeri); poi più nessuno fino al tentativo nel 1978 di Alberto Giovanola e Gilberto Taglione, respinti dopo i primi due tiri dal sopraggiungere della notte. Oggi, dopo oltre settant’anni, il “mistero” del Lesino è stato risolto dalla prima ripetizione della via da Fabrizio Manoni, guida alpina di Premosello, e Felice Ghiringhelli, alpinista di Cuzzago, che in tre giorni, dal 4 al 6 ottobre hanno ripetuto la scalata.
Un’ascensione molto difficile, con due bivacchi e le luci dei laghi e dei paesi lontani a illuminare la notte. Racconta Fabrizio Manoni: “Abbiamo bivaccato nel mitico Paradis di camus (“il paradiso dei camosci”). Poi al risveglio è venuto il momento della scalata. Sopra di noi avvolti nella nebbia 600 metri di parete dall'aspetto repulsivo. Dopo il canale di accesso il grande diedro ci ha accolto con una parete scura e strapiombante solcata da striature nere.
Abbiamo iniziato a scalare un po' intimoriti. Non ci aspettavamo una parete così difficile. Io sfodero tutta la mia tecnica arrampicatoria, piazzo due friend su fessure superficiali e poi pianto un chiodo a lama. Arrampico rigorosamente in arrampicata libera”. I numeri: 5 ore di avvicinamento sotto pesanti zaini e su terreno infido e impervio; 150 metri di canale di accesso instabile; 500 metri di parete vera e propria con difficoltà non altissime (un passo di 6c/7a) ma a volte delicata e spesso esposta e improteggibile. Una grande avventura nella wilderness estrema.
Paolo Crosa Lenz